L’Italia, seconda solo alla Germania in Europa per produzioni manifatturiere, registra contro la prima non solo un grave spread finanziario, ma anche un notevole spread formativo. Basti pensare che mentre gli iscritti, in Italia, ad un corso professionalizzante post-diploma sono 18.000 circa in Germania tale numero sale a 900.000. Il tasso di disoccupazione giovanile nazionale accanto alla carenza cronica di tecnici specializzati grida una impellente necessità di crescita dell’offerta formativa terziaria professionalizzante.
L’attuale periodo storico è definito dalla letteratura exponential era a causa della esponenziale crescita della tecnologia che genera un impatto rivoluzionario sull’economia, mercato del lavoro, sistema sociale, assetti geopolitici. Un contesto con cui fare i conti se vogliamo riflettere sul futuro della formazione
I cambiamenti sono molteplici e penetrano nelle falde di diversi settori, basti pensare a come stanno cambiando l’agricoltura e la tecnologia green, la pescicoltura, gli ospedali e l’assistenza sanitaria, la sostenibilità dei processi produttivi e la gestione dei rifiuti, la manifattura additiva, l’automotive, il trasporto e il settore dei servizi, solo per citare alcuni dei cambiamenti profondi innescati dalla tecnologia nel lavoro e nella vita.
È in preoccupante aumento la carenza e il disallineamento delle competenze rispetto alle richieste del mercato: 4 aziende su 10 in Europa hanno difficoltà a trovare il personale con le giuste competenze[1].
Mentre l’Italia è in rincorsa per recuperare i 10 anni di ritardo rispetto alla Germania su un piano nazionale Industria 4.0 per lo sviluppo industriale, già siamo entrati nella nuova rivoluzione tecnologica 5.0. Si tratta di una rivoluzione antropocentrica, basata sulla collaborazione tra l’uomo e la macchina per far lavorare armonicamente intelligenza artificiale e intelligenza umana. Il mondo del lavoro sta andando verso una sostituzione della macchina all’uomo nei lavori noiosi, pericolosi e i cosiddetti dirty jobs per rivalutare l’intelligenza creativa dell’uomo, l’unica in grado di affrontare i problemi e capire in anticipo le tendenze delle preferenze dei clienti.
Come sanare il mismatch tra domanda e offerta lamentato dalle aziende che sempre più difficilmente riescono a reperire personale tecnico altamente qualificato e capace di utilizzare con abilità le nuove tecnologie? La formazione professionalizzante è l’unico canale capace di far maturare personalità in grado di interagire con tecnologia, innovazione e creatività.
In Italia l’unico esempio di formazione post-diploma altamente qualificante è rappresentato dagli Istituti Tecnici Superiori. Per far decollare la formazione terziaria professionalizzante occorre fare i conti con la grande resistenza al cambiamento del nostro sistema educativo che tende a ripetere sé stesso, a mantenere lo status quo e a difendere le rendite di posizione; il centro del dibattito in Italia rimane ancora il lavoro dei docenti e non l’apprendimento. In questo momento di profonda crisi anche economica è ancor più necessario un significativo investimento anticiclico che possa liberare le energie delle comunità educative per avviare una ricostruzione dal basso anche della formazione professionalizzante.
Fortunatamente l’attuale governo ha mostrato in modo irrefutabile l’interesse rivolto agli ITS prevedendo nel PNRR uno stanziamento di risorse molto ingente, pari a 1,5 miliardi di euro in 5 anni, che serviranno a dare ossigeno alle fondazioni, appuntare una comunicazione più efficace volta a strappare gli ITS all’ingenerosa ombra a cui sono stati costretti per ben 10 anni, e ad avviare una campagna informativa e orientativa che descriva approfonditamente l’offerta formativa e gli sbocchi occupazionali a cui un Diplomato Tecnico Superiore può puntare.
Non dobbiamo partire da zero in quanto il sistema terziario professionalizzante esiste già in Italia. Gli ITS hanno un tasso di occupazione del 83% ad un anno dal termine degli studi, un dato medio nazionale che raggiunge punte del 100% in alcuni territori e in certi settori. Di fatto esso rappresenta la risposta alla grave disoccupazione giovanile e alla carenza cronica di tecnici specializzati e funziona proprio perché parte dal bisogno reale dei territori e delle aziende.
Ma quali sono i tassi di abbandono degli ITS? Il tasso di abbandono dei percorsi ITS secondo i dati INDIRE è del 23%, molto inferiore alla dispersione universitaria che arriva a tassi vicini al 80%, ma comunque un dato su cui lavorare. In verità le interruzioni di molti allievi degli ITS che non terminano dipendono dal fatto che anche grazie ai tirocini formativi trovano lavoro prima della fine del percorso. La provenienza degli allievi è al 64% da istituti professionali e tecnici, poiché all’origine fu intenzionalmente pensato come sviluppo di detti percorsi, e presenta una carenza di genere, come d’altra parte tutto il sistema della formazione tecnica della scuola secondaria di secondo grado e delle lauree scientifiche universitarie.
I punti di forza del Sistema ITS possono essere ricondotti a 4 principali temi: l’integrazione scuola-impresa, la personalizzazione, la flessibilità e l’efficacia occupazionale. Gli ITS rappresentano un successo di integrazione scuola–impresa sicuramente emblematico e di avanguardia. La governance nelle fondazioni di partecipazione è condivisa, con la scuola tecnica o professionale, il centro di formazione professionale, l’università o centro di ricerca, e le imprese; tutti rappresentano i soci fondatori necessari per la creazione stessa dell’ITS, insieme ad un ente locale. La formazione esperienziale è co-progettata e co-realizzata: laboratori e tirocini sfociano di norma in assunzione nelle aziende che hanno già avuto modo di conoscere i giovani e di dare il proprio contributo originale alla loro formazione. Il 70% dei docenti proviene dal mondo del lavoro, una sfida molto interessante nella tensione da capacità didattiche non scontate e competenze, esperienze e passione contagiose per gli studenti. La costruzione del percorso di carriera e la selezione per i ragazzi degli ITS inizia già in aula nei dialoghi con i docenti. Il modello formativo è orientato ad una forte personalizzazione grazie ad un importante investimento sul tutoraggio, sulle attività di coaching ed accompagnamento specie per l’inserimento lavorativo.
Sicuramente la flessibilità costituisce un altro straordinario punto di forza del sistema ITS: il repertorio nazionale delle figure professionali è arricchito dalle curvature territoriali e di settore creando percorsi molto rispondenti alle evoluzioni del mercato del lavoro e alle esigenze delle imprese grazie alla capacità di riprogettare i percorsi annualmente. A fronte di questa attitudine al cambiamento ed apertura alle mutate esigenze lavorative, la libera selezione dei docenti in base alle competenze e alle necessità formative e alla mutevole domanda del mercato del lavoro rappresenta una delle principali e imprescindibili chiavi per il successo. La conseguente flessibilità didattica che deriva da questa impostazione corona la capacità adattiva dei percorsi ITS con una sottolineatura particolare verso le competenze abilitanti Industria 4.0
Da ultimo la professionalizzazione efficace con più del 80% di placement per gli allievi diplomati crea una significativa attrattività per chi si avvicina al Sistema ITS. È significativo notare che il 5% degli allievi ITS è già laureato, ma vede in questi percorsi uno strumento adeguato per raggiungere l’occupabilità.
Secondo l’ultimo rapporto INDIRE, pur con i propri punti di miglioramento dettati prevalentemente da fattori esogeni, gli ITS funzionano. Oltre al tasso di occupazione significativa è la qualità dei tanti percorsi: meno del 16% presentano ancora necessità di miglioramento. Il Sistema ITS promosso dal Ministero di Istruzione e coadiuvato da INDIRE è già riportato dalla Commissione Europea tra gli esempi di rete di centri d’eccellenza in Europa. Esso è coerente anche con il modello UNESCO di approccio sistemico, capace di accogliere l’ecosistema locale di competenze: i soggetti deputati allo sviluppo delle politiche regionali che supportano i piani delle strategie di sviluppo delle competenze; le aziende che permettono una riprogettazione continua a partire dai fabbisogni del mercato; le comunità locali con i loro progetti innovativi relativi alle sfide in corso o sulle migliori pratiche; le agenzie educative; e i centri di ricerca che lavorano sull’innovazione e sullo sviluppo di competenze[2]
[1] CEDEFOP (2015), Skill shortages and gaps in European enterprises
[2] Fonte: L’assenza di un canale di formazione terziaria professionalizzante in Italia: come porvi rimedio?, Discussion Paper n°3, Gruppo di progetto Unimi 2040, Dicembre 2020, Milano University Press.